Espulsione? Ma si può fare?
Siamo alle solite, si direbbe. Il caso Ungheria rappresenta uno dei limiti più evidenti della tormentata coesistenza dei Paesi UE. L’evento certamente più grave, che ha guadagnato le prime pagine dei media di tutto il mondo, è quell’orribile barriera eretta lungo il confine e le recenti minacce da parte dell’estrema destra di “decorare” il filo spinato con delle teste di maiale, per scoraggiare l’avanzata dei musulmani. Secondo l’imbecillità destro-ungherese i profughi verrebbero allontanati dal maiale a mo’ di zanzare. Tralasciando per decenza questi spunti macabri, certo è che l’innalzamento di una barriera lungo il confine, l’invio di militari e mezzi blindati e, da ultimo, la formazione di un esercito di civili, non sono per niente in linea con i principi fondanti dell’Unione Europea.
Questo è un fatto.
Da qui la richiesta da parte del Lussemburgo di “espellere” l’Ungheria dall’Unione. E questa invece è tutta un’altra faccenda. Prima di tutto perché sarebbe più opportuno che una richiesta del genere fosse portata avanti semmai dal Parlamento Europeo, oppure da un capo di Stato (i Capi di Stato sono membri del Consiglio d’Europa ndr) e non da un Ministro degli Esteri, poi perché si presuppone che un Ministro degli esteri conosca bene i Trattati sui quali l’Unione si fonda. Se li conoscesse, ben saprebbe che l’espulsione di un Paese Membro non è prevista da nessuna parte.
E questo è un altro fatto.
Data l’aria che tira a Bruxelles, questo è forse il più importante elemento di riflessione. Già recentemente con l’esito del referendum britannico ci si era resi conto che la UE non ha previsto una procedura, un protocollo operativo, una modalità insomma di gestire l’uscita dalla comunità di un Paese che decida volontariamente di lasciare l’Unione. Ma che un membro venisse espulso, non ci si era mai posto neanche il problema.
E’ chiaro ed evidente a questo punto che il Trattato di Lisbona vada rivisitato ed integrato.
Chissà se i nostri governi saranno capaci di prendere atto di questo limite ed intraprendere iniziative profonde in direzione di una costituzione d’Europa, che per troppo tempo è stata rimandata. Qualcuno potrebbe osservare che la situazione critica non sia la condizione migliore per lavorare ad una costituzione, ma di fatto sono le crisi ad offrire l’opportunità di portare in primo piano i limiti del sistema.
L’Ungheria dal canto suo non dà alcun cenno di ammorbidimento, anzi. Il suo leader maximo ha pensato bene di innalzare la provocazione, indicendo addirittura un referendum popolare sull’accettazione o meno delle quote di immigrati proposta da Bruxelles.
Di cosa si tratta? Di una buffonata politica bella e buona, in verità. Di un atto di populismo, nel senso deteriore del termine, volto solo a consolidare la leadership del dittatorello di turno, Orbán.
Come non esiste una procedura di espulsione, altrettanto non è contemplata la possibilità che un Paese si sottragga ad una Direttiva Europea. Fa parte delle cessioni di sovranità che i Paesi sottoscrivono quando diventano membri. Sono anzi previste delle procedure di infrazione che possono produrre multe piuttosto salate anche nel semplice caso di ritardo nell’attuazione (l’Italia detiene il record di infrazioni, ndr). E non è nemmeno previsto che l’adesione a queste direttive sia assoggettabile a referendum sebbene ciascun Paese abbia poi una procedura di ratifica propria (cfr ns articolo).
Il fatto è che dopo anni di “emergenza” immigrazione, nei quali abbiamo visto di tutto, dalla sospensione parziale di Shengen, al piano di intervento Triton e tutto il resto, la UE non è riuscita a trasformare ancora il piano della ripartizione dei profughi in una direttiva. E qui Orban ha ben saputo giocare d’anticipo, mentre Juncker continua a brillare per la sua totale incapacità di leadership.
Molti europei si domandano però oggi se sia stato giusto accogliere in Europa tutti questi Paesi dell’ex blocco sovietico, che fino adesso hanno prodotto solo problemi ed un salasso economico senza precedenti. La Polonia ottenne finanziamenti impensabili semplicemente opponendosi a tutte le delibere che richiedessero l’unanimità, facendo più volte perdere le staffe al nostro Romano Prodi che giunse a proporre un sistema a maggioranza. Oggi l’Ungheria che ha ritirato sei miliardi di contributi europei nel 2014 versando solo 800 milioni, (cfr tabella Bilancio UE), appena si prospetta il momento di compiere il proprio dovere sul piano umanitario, si mette ad armare i cittadini, alzare filo spinato ed indire referendum. Se poi andiamo ad analizzare quanto lavoro e ricchezza hanno perso Paesi come l’Italia per prima, ma anche Francia, Spagna e Germania fra delocalizzazione delle imprese a causa delle differenze del costo della mano d’opera, per non parlare delle agevolazioni fiscali, siamo facili profeti nel ritenere che la maggior parte degli europei, vogliano la fine di queste riottosità e siano d’accordo con Asselborn, il Ministro degli esteri lussemburghese. Vogliono prendere a pedate Orbán e la sua Ungheria.